
Meditare è come andare al gabinetto, secondo il maestro zen Shunryu Suzuki, il quale paragona la pratica zen a un lavoro di pulizia delle mente simile a quello che si fa andando in bagno dopo aver mangiato.
Non so come vi sentite, ma io mi sento come uno appena uscito dal gabinetto. Sono piuttosto vecchio, vado al gabinetto di frequente. Anche quando ero giovane ci andavo più spesso degli altri e a volte questo era un vantaggio. Quando andai al monastero di Eiheiji e sedevo in tangaryo [una sessione continuata di meditazione di svariati giorni, necessaria per essere accettati in un monastero zen], potevo andare al gabinetto senza sentirmi in colpa, perché ne avevo proprio bisogno. Ero così contento di andare al gabinetto! Penso che andare al gabinetto sia un buon modo per osservare la nostra pratica.
Il maestro zen Ummon è stato forse il primo a mettere in relazione la pratica e il gabinetto. Gli fu chiesto: «Qual è la vostra pratica? Che cos’è il Buddha?» e lui rispose: «Carta igienica». Al giorno d’oggi c’è la carta igienica, ma lui, in realtà, disse: «Qualcosa con cui pulirsi al gabinetto». Ecco che cosa disse. E da allora molti maestri zen ci pensano, praticano sul koan: “In che senso carta igienica? Che cosa intendeva dire?”.
Nella vita di tutti i giorni mangiamo molti cibi, buoni o cattivi, complicati o semplici, saporiti o meno. Poi abbiamo bisogno di andare al gabinetto. Allo stesso modo dopo aver riempito la mente, pratichiamo zazen. Altrimenti la nostra attività di pensiero potrebbe finire per diventare molto malsana. È una necessità, per noi, ripulire la mente prima di studiare qualcosa. È come fare un disegno sulla carta bianca: se non usi una carta pulita e bianca, non puoi disegnare quello che desideri. Dunque è necessario ritornare al tuo stato originario, in cui non hai niente da capire e niente a cui pensare. Allora comprenderai quello che stai facendo.
Più pratichi zazen, più sei interessato alla tua vita quotidiana. Scopri quello che è necessario e quello che non lo è; quale parte della tua vita va bene e quale devi mettere più in rilievo. Con la pratica, dunque, sai come organizzare la tua vita, il che significa osservare con cura la tua condizione, ripulire la tua mente e cominciare dal punto di partenza originario. È come andare al gabinetto.
La nostra cultura si basa sull’idea di guadagno e accumulazione. Per esempio, la scienza è accumulazione di conoscenza. Non so se uno scienziato di oggi sia più grande di uno scienziato del Cinquecento; la differenza è che abbiamo accumulato conoscenza scientifica. È una buona cosa, e allo stesso tempo è pericolosa: corriamo il pericolo di restare sepolti sotto tutta la conoscenza che abbiamo accumulato. È come cercare di sopravvivere senza andare al gabinetto. Stiamo già nuotando nello stagno dell’acqua e dell’aria inquinata, e parliamo di quell’inquinamento. E allo stesso tempo riusciamo a stento a sopravvivere all’inquinamento della nostra conoscenza.
Ognuno di noi sa andare al gabinetto senza attaccamento per una certa cosa che abbiamo nel corpo. Quando ci rendiamo conto che abbiamo già tutto, non proveremo attaccamento per niente. In realtà abbiamo tutto; ce l’abbiamo anche senza andare sulla luna. Il fatto di cercare di andarci significa che pensiamo che la luna non sia nostra.
Come ci ha insegnato il Buddha, la nostra mente è una cosa sola con tutto. Nella nostra mente c’è tutto. Se consideriamo le cose in questo modo, allora comprendiamo la nostra attività. Studiare una cosa è apprezzarla; apprezzare qualcosa è essere distaccati dalle cose. Quando diventiamo distaccati dalle cose tutto diventa nostro, La nostra pratica è realizzare questo genere di mente vasta; in altre parole, andare al di là di ogni essere, compresi noi stessi, e lasciare che il nostro ego funzioni come funziona. Ecco la pratica di zazen. Quando pratichiamo zazen in realtà ci stiamo ripulendo dei nostri svariati attaccamenti.
Abbiamo una gran paura della morte. Quando siamo maturi abbastanza, però, comprendiamo che la morte è una cosa che ci deve capitare. Morire da giovani, quella sì che è una cosa temibile. Se muoio io non è poi una cosa così terribile, né per me né per voi, perché sono maturo a sufficienza per morire. Comprendo piuttosto bene la mia vita, capisco che cosa sia vivere un giorno, che cosa sia vivere un anno, che cosa sia vivere sessanta o cento anni. Quando raggiungi maturità ed esperienza, comunque, quando hai mangiato molte cose nella tua vita penso che sei ben contento di morire, proprio come sei contento di andare al gabinetto. È così che succede.
Una persona vecchia, di ottanta o novant’anni, non ha molti problemi. Potrà star male fisicamente, forse, ma sofrire non è poi quella gran cosa che si pensa. Quando si è giovani si pensa alla morte come a qualcosa di terribile, e così quando si sta morendo si continua a pensarla allo stesso modo. Ma in realtà non è così terribile. C’è un qualche limite alla nostra capacità di sopportare la sofferenza fisica, e c’è un limite anche alle capacità della nostra mente, ma noi pensiamo che sia illimitata. Abbiamo sofferenza illimitata perché abbiamo desiderio illimitato. È quel tipo di desiderio, dice il Buddha, a crearci problemi: il nostro desiderio illimitato ci fa accumulare problemi uno dopo l’altro, così abbiamo una paura infinita. In realtà, quando sappiamo come ripulire la nostra mente non abbiamo poi tanti problemi. Come andiamo al gabinetto tutti i giorni, così facciamo zazen tutti i giorni. Nella vita monastica, la pratica migliore è pulire i gabinetti. Dovunque andiate, in qualsiasi monastero, troverete sempre che è una persona in particolare a pulire i gabinetti. Noi non puliamo il gabinetto perché è sporco; che sia sporco o meno, puliamo il gabinetto finché non siamo in grado di farlo senza alcuna idea di sporco o pulito. Quando è così, quella in realtà è la nostra pratica di zazen. Potrebbe sembrare difficile estendere quella pratica alla vita quotidiana ma in realtà è piuttosto facile; a renderla difficile è la nostra pigrizia, nient’altro. Ecco perché diamo importanza alla perseveranza, alla pratica continua. Non dovrebbe esserci alcuna cessazione della pratica; la pratica dovrebbe andare avanti un momento dopo l’altro.
Da. Shunryu Suzuki, “Lettere dalla vacuità. Lo zen e l’arte di vivere“, Mondadori, 2005.
Lettere dalla vacuità. Lo zen e l’arte di vivere

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