
Quali sono i mezzi abili per lavorare sull’avversione?
a) La prima regola potrebbe formularsi così: “piccolo è utile”. Ossia è particolarmente importante che i praticanti non si lascino sfuggire le piccole o piccolissime avversioni, dato che esse offrono occasioni di pratica relativamente facili e, insieme, del tutto convincenti. Naturalmente la condizione necessaria è quella di poter contare su una consapevolezza ben allenata. E, a questo proposito, notiamo come il beneficio di praticare la modalità meditativa chiamata ‘consapevolezza aperta’ vada ben oltre la meditazione seduta. Questa modalità, infatti, ci addestra a essere presenti il più possibile nei riguardi di tutto ciò che sorge nella mente, inclusi, evidentemente i moti di avversione. Diversamente, nell’ipotesi che fossimo interessati a un approccio esclusivamente concentrativo, potremmo ritrovarci facilmente (anche se non necessariamente) in una situazione molto paradossale, e cioè con la capacità di accedere a stati di tranquillità e di silenzio mentale da una parte, mentre, dall’altra parte, potremmo scoprire che tutto quanto disturba o contrasta quegli stati di pace suscita in noi risentimento e fastidio!
b) Dobbiamo tenere presente che il praticante incline ad avere poca stima di sé, scoprendosi molta più avversione di quanto immaginasse, potrebbe vedere in ciò una conferma alla propria tendenza all’autosvalutazione. E dunque in questo caso avremmo che il risultato della contemplazione dell’avversione sarà solo un aumento della medesima avversione. Torna alla mente una famosa immagine delle scritture: il Dharma male inteso è pericoloso, così come accade quando un serpente è preso nel modo sbagliato. Tuttavia a me sembra che, qualora ci sia un buon fondamento, non solo il pericolo di moltiplicare l’avversione viene meno, ma, al contrario, usciamo particolarmente arricchiti dal contatto meditativo con nostre aree difficili.
La chiave, appunto, è il ‘buon fondamento’, ossia un insieme di cose tra le quali spicca una buona conoscenza, attenta e convinta, dei principi del Dharma, la frequentazione di insegnanti che stimiamo, l’aver sviluppato una certa inclinazione a prendere rifugio nella consapevolezza e nell’apertura del cuore. Certo, a volte il buon fondamento può mancare o essere insufficiente, ora per carenze dell’insegnamento o dei centri di Dharma, ora, invece, per un fatto di ansia individuale: siamo insofferenti per tutto ciò che è preparazione e approccio graduale, vogliamo andare subito al sodo… e ci facciamo male. Dunque, il mezzo abile nel caso di cui stiamo parlando, sarà di accantonare momentaneamente il lavoro focalizzato sull’avversione e di curare, invece, il ‘fondamento’, con speciale riguardo alla pratica di metta e di karuna (benevolenza e compassione).
c) Un problema cruciale nel lavorare con l’avversione è, come molti praticanti sanno, l‘attaccamento all’avversione.
Il piacere connesso con gli oggetti sensoriali ha i suoi difetti, ma anche i suoi aspetti utili. E così le sensazioni, le percezioni, i pensieri e la coscienza hanno i loro aspetti utili. L’unica eccezione è la rabbia: non serve assolutamente a niente. È calda e brucia. Non piace a nessuno. Quando gli altri sono arrabbiati con noi, non ci piace. Quando siamo noi a essere arrabbiati con gli altri, questo a loro non piace. Eppure la nostra confusione è tale che siamo attaccati alla nostra rabbia.
Tra le varie osservazioni che si possono fare su questo tipo di attaccamento, limitiamoci a sottolineare quella che sembra la più importante dal punto di vista della pratica: è a causa di questo attaccamento che non entriamo in contatto con l’avversione. Infatti l’attaccamento all’avversione ci fa indulgere nell’avversione, ci fa pensare fervidamente a essa, provoca insomma l’identificazione con l’avversione e tutto ciò ha per effetto di rendere insensibili e ciechi riguardo all’avversione: non la vediamo così com’è, non avvertiamo la sofferenza che accende e non incontriamo nemmeno quella parte di noi stessi che non la vuole.
È chiaro che qui il mezzo abile è rivolgere la consapevolezza non tanto all’avversione, quanto, piuttosto, all’attaccamento alla medesima. Sicché, in virtù del potere specifico della consapevolezza, cominceremo a lasciare andare questo attaccamento. Lasciare l’attaccamento all’avversione e aprirsi all’avversione è tutt’uno. Osserviamo che questo movimento di apertura è agli antipodi di ciò che facciamo abitualmente. Dunque aprirsi e cioè ascoltare con pienezza, in silenzio e senza resistenza la rabbia, l’impazienza, il giudicare amaro. Questa apertura è un moto di amicizia oltre che di coraggio. La regola che l’odio non si vince con l’odio bensì con l’amore è vera sia nella relazione con l’altro sia nella relazione con sé stessi. E dunque l’ascolto amichevole e sensibile della nostra avversione è la cura per eccellenza, non già l’aspra autocondanna.
È di grande importanza il toccare con mano personalmente, molte e molte volte, che l’aprirsi all’avversione è una buona esperienza. All’inizio ciò non sarà evidente, un po’ come quando si scioglie una tensione fisica cronica: sulle prime il beneficio di tale scioglimento è come soverchiato da una sensazione dolorosa. Successivamente, però, è il beneficio che verrà in primo piano. Un importante insight che può accompagnare questo lavoro d’apertura all’avversione è il rendersi conto del fatto che, per molto tempo, noi abbiamo letteralmente ‘dato il cuore’ alle nostre avversioni. Se pensiamo che ‘dare’ o ‘porre’ il cuore è il significato della parola saddha, fede, ci accorgiamo che abbiamo in sostanza riposto la nostra fiducia negli inquinanti, ossia nella causa della sofferenza. E non è dunque un caso se la sofferenza, così fedelmente perseguita, abbia continuato a fiorire nelle nostre vite.
Un’ultima osservazione. Questo insight, questa comprensione intuitiva del nostro errore fondamentale (o ignoranza) ossia del perseguire ciò che nuoce invece di ciò che giova, deve in primo luogo stabilizzarsi e radicarsi in noi. In secondo luogo esso deve progressivamente e luminosamente raffinarsi, pervenendo ad applicarsi con facilità a qualsiasi increspatura di avversione e aprendoci così a quella pace profonda il cui richiamo coglie sempre più spesso chi pratica con fiducia.
Tratto dalla rivista Sati dell’A.Me.Co.
Nota: i corsivi del testo stampato sono stati sostituiti con grassetti nel testo online.
Per approfondire:
Corrado Pensa – Testi sulla meditazione, libri, biografia e frasi
Affrettati piano. Il cammino interiore e la meditazione di consapevolezza: una strada per la felicità

You need to login or register to bookmark/favorite this content.