Meditazione e Politica possono andare d’accordo?

meditazione e politica

Meditazione e politica sono ambiti piuttosto antitetici. La meditazione è tipicamente personale, è privata, si rivolge all’interno della persona e non ha uno scopo preciso. La politica è tipicamente collettiva, è pubblica, si rivolge all’esterno della persona e mira a scopi ben precisi. In linea di massima, chi pratica la meditazione non è particolarmente incline a occuparsi di politica, e chi si occupa di politica non è particolarmente incline a praticare la meditazione. Ma ci sono molte eccezioni, dal momento che non c’è alcuna regola codificata che inibisce la coesistenza delle due cose.

Le grandi domande su meditazione e politica

In questo argomento non c’è nulla di scontato. Chi pratica la meditazione, anche se lo fa in solitudine a casa propria, entra in un flusso, nella “corrente” del Dharma, che ha una forte valenza storica e collettiva. Nella grande maggioranza dei casi, chi pratica la meditazione lo fa infatti ricalcando metodi e impostazioni che fanno riferimento alla tradizione buddhista, direttamente o indirettamente. Succede anche per gli ambiti più “laici” come la Mindfulness o la Soka Gakkai. Prendendo parte a quello che è di fatto un grande movimento internazionale, sorge spontanea la questione su quali siano gli orientamenti di tale movimento sui vari temi. Uno di questi temi è la partecipazione politica.

Alcune domande non hanno una risposta certa e univoca. Ad esempio:

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  • Chi pratica la meditazione dovrebbe interessarsi alla politica, seguendone le vicende sui vari media – compresi i social e i talk-show serali – o piuttosto mantenere una certa distanza, per tutelare la propria mente da consumi malsani?
  • Per chi segue la corrente del Dharma, impegnarsi direttamente in politica è opportuno o inopportuno?
  • Di fronte a grandi avvenimenti con una valenza politica, dobbiamo prendere posizione, individualmente e come gruppo?

Io non ho la risposta a queste domande. Però vorrei dare un contributo, come al solito, facendo opera divulgativa. Vediamo dunque quali sono gli orientamenti sul rapporto tra meditazione e politica.

Il Buddha e la politica

Partiamo dalle origini. Cominciamo col dire che il Buddha storico (Siddharta Gotama) non disdegnava affatto la politica. Certo, non faceva politica, ma ha avuto molte relazioni con personaggi che ricoprivano incarichi pubblici, ai quali non ha risparmiato consigli e indicazioni, anche su questioni di carattere politico.

Un brano che abbiamo recentemente pubblicato evidenzia come il Buddha avesse ben chiare quali dovessero essere le caratteristiche comportamentali di un governante. In politica il modo di comportarsi non è neutrale. Perciò possiamo dire che il Buddha avesse una sua ben precisa visione politica.

Ciò è determinante, nell’analisi del rapporto tra meditazione e politica. Il Buddha è stato l’ideatore dei metodi più diffusi che oggi adottiamo per praticare la meditazione. Su questo – i metodi e le tecniche – ha lasciato indicazioni ben precise, come testimoniano discorsi come il Satipatthana Sutta o l’Anapanasati Sutta. La meditazione era di sicuro al centro di suoi interessi come predicatore, oltre che il metodo con cui ha raggiunto l’illuminazione e la liberazione. Eppure si è interessato anche di questioni sociali e politiche.

Dunque, per prima cosa, dalla storia personale di Gotama possiamo dedurre che i due domini – meditazione e politica – non sono affatto antitetici. Essi possono convivere nella stessa persona, nello stesso gruppo, nello stesso movimento.

Al contempo, sappiamo anche che il Buddha non amava le categorie di giusto e sbagliato. Rispetto ai principi assoluti, prediligeva di gran lunga un’etica “situazionale”, basata su una valutazione caso per caso delle situazioni.

Come seconda cosa, perciò, possiamo ricavare un interesse sì per la vita pubblica e politica, ma senza prese di posizione a priori, assolute, rigide. Del resto è l’arte politica stessa a richiedere capacità di dialogo, di ascolto, di compromesso.

Detto ciò, non bisogna giungere nella banale conclusione che essendo il Buddha il maestro della via “di mezzo”, i suoi seguaci debbano assumere posizioni politiche “di centro”. Si può essere buddhisti ed avere un orientamento politico di centro, come anche di sinistra o di destra. Altrimenti si cadrebbe nell’integralismo.

I consigli di un maestro di meditazione

Riflettendo sul rapporto tra meditazione e politica, e indagando sul tema, ho trovato molto utile l’approccio di Jack Kornfield, un autore tra i più apprezzati non solo in Zen in the City, ma anche dai praticanti italiani in generale. Il suo libro “Il cuore saggio” è molto popolare e amato.

Jack Kornfield considera non in conflitto, ma complementari, la meditazione e l’azione impegnata nel mondo. In un articolo pubblicato su The Lion’s Roar, elenca i diversi ambiti in cui si è impegnato personalmente: dal supporto a Barak Obama alla riforma delle carceri, dalle marce per il Tibet libero alla raccolta fondi per i soccorsi in Birmania.

Nonostante il suo impegno a favore di Obama e le sue successive prese di posizione contro le politiche di Donald Trump, Kornfield tiene a sottolineare il carattre nutrale degli insegnamenti buddhisti:

I benefici degli insegnamenti del dharma possono essere utilizzati da repubblicani e democratici, da membri del Partito Verde e da libertari, da iracheni e israeliani. Il dharma accoglie tutti e incoraggia tutti a risvegliarsi insieme.

Trovo però che il punto più interessante dell’approccio proposto da Kornfield sia un altro. Nel momento in cui decidiamo di non rimanere indifferenti, qual è l’atteggiamento più opportuno da tenere? Come possiamo proteggerci dal rischio di rimanere invischiati nel dolore o nel cinismo che dominano nel dibattito pubblico, così evidenti in arene di discussione come i social media e I talk show? La risposta dell’insegnante americano è a mio parere confortante:

Come praticanti del dharma, il primo compito è rendere il proprio cuore una zona di pace. Dovete affrontare le vostre paure, le vostre sofferenze e trasformarle in compassione. Solo allora potrete offrire un aiuto genuino al mondo esterno. Albert Camus scrive: “Tutti portiamo dentro di noi i nostri luoghi di esilio, i nostri crimini, le nostre devastazioni. Il nostro compito non è quello di scatenarli sul mondo, ma di trasformarli in noi stessi”.

“Come praticanti del dharma, il primo compito è rendere il proprio cuore una zona di pace”. È molto chiaro. Di fronte alla tempesta emotiva scatenata da eventi che giudichiamo negativi, Jack Kornfield ci consiglia di calmare la mente e aprire il cuore. Per farlo, non c’è bisogno di essere guru che in pochi istanti riescono a entrare nel Nirvana. Basta crearsi una zona di pace e compassione tramite gesti molto semplici, come spegnere il telegiornale, ascoltare Mozart, passeggiare tra gli alberi o le montagne. Cose che possiamo fare tutti.

Bisogna peraltro ricordarsi che lo stesso principio dell’originazione interdipendente – uno dei pilastri dell’insegnamento del Buddha – ci impedisce di tracciare un confine netto di separazione tra spiritualità e politica:

Siamo tutti sulla stessa barca, il che si riflette nell’insegnamento del Buddha sull’interdipendenza. Le relazioni con gli altri, la retta parola, la retta azione e i giusti mezzi di sostentamento sono tutti parte del cammino dell’illuminazione, espressione del cuore illuminato.

Dobbiamo sedere in silenzio, per poter vedere ciò che è necessario a portare beneficio al mondo. Il Buddha ha insegnato che la pace interiore nasce dalla consapevolezza, dalla compassione e dal rispetto, ci ricorda Kornfield.

Da un cuore tranquillo, potete guardare e vedere come la società tratta i suoi membri più vulnerabili e se agisce in modi che favoriscono l’avidità, l’odio, la paura e l’ignoranza. Potete iniziare a individuare ciò che potete fare a livello nazionale e internazionale per sostenere la generosità e il rispetto, per ridurre al minimo la violenza e per porre fine al razzismo e allo sfruttamento. Una volta che avrete guardato con chiarezza, potrete dedicarvi a contribuire alla realizzazione di una società saggia e compassionevole. Questo è un atto da bodhisattva.

Casi straordinari di impegno in politica del mondo buddhista

A volte capita che circostanze straordinarie richiedano una mobilitazione straordinaria. Due casi mi hanno particolarmente colpito.

Il primo è stato il gran numero di prese di posizione, da parte di insegnanti di dharma statunitensi, nei confronti delle politiche di Donald Trump. Trump non è stato semplicemente un governante di destra. Ha mantenuto fino alla fine del suo mandato uno stile di governo molto aggressivo, culminato nell’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021.

Nel periodo della sua presidenza (2017-2021), sui media di orientamento buddhista sono usciti molti articoli preoccupati del clima di polarizzazione che si stava creando e dell’incattivirsi del dibattito pubblico. Ma il caso più eclatante è stata la pubblicazione, nell’agosto 2017, di un documento intitolato “Contro la sofferenza: Un appello all’azione degli insegnanti buddhisti”, firmato da 13 insegnanti di rilievo, tra cui Bhikkhu Bodhi, Jack Kornfield, Norman Fischer e Joan Halifax, al quale hanno poi aggiunto la propria firma più di 140 leader buddhisti, tra cui Joseph Goldstein, Stephen Batchelor, Bhikkhu Analayo, Tara Brach, Bernie Glassman, Phap Hai (Plum Village) e Kaira Jewel Lingo. Praticamente tutti.

Il documento, pur ribadendo che il buddhismo non si schiera con nessun partito o ideologia, “quando è in gioco una grande sofferenza, i buddhisti devono prendere posizione contro di essa, con amorevolezza, saggezza, mente calma e coraggio”. Andando dritti al punto, si affermava che milioni di persone avrebbero sofferto a causa delle “politiche regressive della nuova amministrazione statunitense, rivolte alle comunità più vulnerabili”. Denunciando il fatto che la democrazia e il tessuto sociale fossero a rischio, si auspicava l’emergere di una “forza straordinaria per la trasformazione e la liberazione”.

Un’altro esempio di discesa in campo da parte di esponenti del mondo buddhista si è manifestato con l’emergere del movimento ambientalista Extinction Rebellion. Quest’ultimo, pur essendo piuttosto radicale nelle proprie richieste, annovera tra i propri principi base la non violenza e la necessità di un cambiamento interiore.

Molti leader buddhisti hanno partecipato a manifestazioni del movimento o lo hanno sostenuto pubblicamente, come testimonia il documento firmato da Phap Man, di Plum Village. Questo articolo pubblicato sul sito Sangha builiding testimonia la simpatia manifestata dalla comunità di Plum Village, che fa riferimento a Thich Nhat Hanh.

L’eredità del Buddhismo Impegnato

La necessità di coniugare la pratica di meditazione con l’impegno sociale fu codificata nel 1954 da Thich Nhat Hanh, che le attribuì il termine di “Buddhismo Impegnato”. Il Vietnam era atato fino ad allora interessato da una guerra di resistenza anti-imperialista contro la Francia. Nel ’54 gli accordi di Ginevra sancirono la divisione del paese in un Nord di ispirazione marxista e un Sud “personalista” di orientamento cattolico. Tale divisione portò una grande confusione nel popolo vietnamita e Thcich Nhat Hanh pensò che la consolidata tradizione buddhista potesse costituire un utile punto di riferimento. Scrisse per un quotidiano locale una serie di 10 articoli intitolati “A Fresh Look at Buddhism” (uno sguardo nuovo sul Buddhismo) che sancirono la nascita a livello teorico del Buddhismo impegnato.

Una tappa saliente di questo movimento fu la creazione, nel 1964, dell’Ordine dell’Interessere, tuttora esistente, quale movimento di resistenza spirituale. Mentre infuriava la guerra – sia militare che ideologica -tra Nord e Sud del Vietnam, questa nuova organizzazione reintepretava i precetti del Buddhismo alla luce del loro rapporto con la società. Il primo “addestramento” (il modo in cui Thich Nhat Hanh ridefinì il concetto di precetto) recitava:

Consapevoli della sofferenza creata dal fanatismo e dall’intolleranza, siamo determinati a non essere idolatri o legati a nessuna dottrina, teoria o ideologia, anche buddhista.

I volontari buddhisti aiutavano i poveri contadini che abitavano in villaggi distrutti dalla guerra, senza schierarsi con alcuno dei due fronti. La conseguenza fui che furono perseguitati da entrambi.

In un articolo che ripercorre la storia del Buddhismo Impegnato, Thich Nhat Han ne spiega così l’essenza:

Il primo significato di Buddhismo Impegnato è il tipo di Buddhismo che è presente in ogni momento della nostra vita quotidiana. Mentre vi lavate i denti, il Buddhismo dovrebbe essere presente. Mentre guidate l’auto, il Buddhismo dovrebbe essere presente. Mentre camminate al supermercato, il Buddhismo dovrebbe essere presente, in modo da sapere cosa comprare e cosa non comprare!

Inoltre, il buddhismo impegnato è il tipo di saggezza che risponde a tutto ciò che accade nel qui e ora: il riscaldamento globale, il cambiamento climatico, la distruzione dell’ecosistema, la mancanza di comunicazione, la guerra, il conflitto, il suicidio, il divorzio. Come praticanti della mindfulness, dobbiamo essere consapevoli di ciò che accade nel nostro corpo, nei nostri sentimenti, nelle nostre emozioni e nel nostro ambiente. Questo è Buddhismo Impegnato. Il Buddhismo Impegnato è il tipo di buddhismo che risponde a ciò che accade nel qui e ora.

Meditazione e politica, in sintesi

Concludendo, possiamo dire che meditazione e politica, Buddhismo e politica lungi dall’essere in antitesi, sono strettamente interconnessi. Non che dal praticare il Buddhismo derivi la naturale conseguenza a schierarsi da una parte piuttosto che dall’altra. Anzi: il principio dell’originazione interdipendente ci dice che ogni cosa è determinata da tante cause e condizioni diverse, spesso incontrollabili.

Dunque la pratica di meditazione porta in un certo senso ad accettare la realtà così com’è. Ma è anche vero che tale pratica aiuta a sviluppare la compassione e a vedere che non c’è un confine netto di separazione tra ciò che si sviluppa nella nostra mente-cuore e ciò che avviene nel mondo.

Perciò è facile osservare praticanti coinvolti a vario titolo nella società, a sostegno di qualche causa. Gli ambiti tipici di impegno di questo genere di attivisti sono il ristabilimento della pace, la promozione dei diritti umani, la tutela dell’ambiente, lo sviluppo rurale, la lotta alla violenza etnica, l’opposizione alla guerra e il sostegno ai diritti delle donne.

Ogni epoca ha le sue pene e ci richiama a forme di interesse e di impegno diversi. La differenza la fanno le menti delle persone. Impegnarsi a fondo per sviluppare una mente equanime e pacifica è il primo, indispensabile passaggio per un impegno nella società che non porti altra sofferenza ma sia utile a eliminare quella esistente.

[La foto è tratta dal sito Sangha Building]

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Paolo Subioli

Insegno meditazione e tramite il mio blog Zen in the City propongo un’interpretazione originale delle pratiche di consapevolezza legata agli stili di vita contemporanei.

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