
Vado a tratteggiare, per sommi capi e me ne scuso, una storia al contrario della diffusione del buddhismo, dai nostri giorni alla fondazione in India. La ragione è semplice: partire dalle conseguenze e arrivare alle radici, seguendo lo stesso percorso che si compie meditando. In Italia buddhismo vuol dire, anzitutto, zen. Ha iniziato a circolare popolarmente grazie alla pubblicazione dei romanzi di Jack Kerouac, nelle prime edizioni del 1959-1961 (Sulla strada e I sotterranei nella traduzione di Fernanda Pivano, I vagabondi del Dharma in quella di Magda de Cristofaro), a cui seguono nei bollenti anni Sessanta Big Sur e soprattutto Satori a Parigi. Kerouac aveva scritto nel ’55 anche Il libro del risveglio dedicato alla vita di Buddha che però è stato tradotto soltanto quarant’anni dopo. Nel 1960 viene tradotto La via dello zen del filosofo inglese Alan Watts. Sono gli stessi anni della diffusione della cultura orientale del bonsai, importata a Milano grazie alla famiglia Crespi (oggi gestiscono un impero e uno splendido museo a Parabiago), e di tutte le discipline connesse (jujitsu, ikebana, bushidò) e del karate, la lotta a mani nude sviluppata dall’aristocrazia di Okinawa. I testi teorici di grande diffusione sono presto affiancati da libri filosofici che manifestano una splendida duttilità del buddhismo zen applicabile alla vita di tutti i giorni: mi riferisco ad esempio a Lo zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel (1975), a Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig (1981). Un enorme successo ha riscosso la traduzione di Siddharta di Hermann Hesse nel 1974, che ha continuato a vendere ininterrottamente, fino ai giorni attuali.
I primi maestri del buddhismo zen arrivano in Nord America negli ultimi anni del XIX secolo e pochi anni dopo in Europa. Mentre negli Stati Uniti iniziavano a circolare i saggi sulla cultura giapponese scritti da Ernest Fenollosa (1853- 1908), già professore all’università imperiale di Tokyo, Ezra Pound (1885-1972), il poeta che rivoluzionerà la poesia moderna col suo vastissimo poema I Cantos, scritto fra la seconda metà degli anni Dieci e gli ultimi anni della sua vita, cura un’antologia di poesie cinesi antiche, basandosi in parte sulle annotazioni dello stesso Fenollosa. Questa antologia, uscita nel 1915 a Londra, s’intitola Cathay e sarà letta da molti poeti e autori di rilievo. Divoratori di Pound sono poi stati i Beat, la generazione di poeti e scrittori emersa a metà Novecento, negli anni in cui hanno iniziato a lavorare sempre più spesso in Occidente i “divulgatori” delle pratiche e delle idee buddhiste: Chógyam Trungpa (1939-1987), maestro tibetano di poeti beat come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Anne Waldman, Peter Orlovsky, il neuroscienziato Francisco Varela e la cantante e pittrice Joni Mitchell, fondatore di oltre cento centri di meditazione nel mondo e cofondatore della Jack Kerouac School of Disembodied Poetics al Naropa Institute di Boulder, in Colorado, fucina di pensatori, editori, poeti e artisti anche ai nostri attuali giorni. Daisetzu Teitarò Suzuki (1870-1966), professore della Columbia e altre prestigiose università, nonché autore di saggi e testi tradotti in molte lingue. Taisen Deshimaru, maestro di Soto, una delle tre principali scuole che compongono lo zen, arriva a Parigi nel 1967, tre anni più tardi riceve la “trasmissione” (il passaggio da un maestro all’allievo) e diviene il responsabile in Europa per le attività di formazione e diffusione della meditazione zen del suo ordine. Molti attuali maestri di meditazione in Italia ne sono stati discepoli.doge
Il passaggio antecedente ci riporta indietro di mille anni, quando gli insegnamenti del buddhismo chan, di matrice cinese, approdano a ondate, fra il IX e il XII secolo, in Giappone. Il Duecento è stato il secolo della fondazione dei grandi templi: così mentre alle nostre latitudini la chiesa veniva scossa da un piccolo frate che andava a piangere e dialogare con gli uccelli e i lupi nei boschi dell’Appennino, in Giappone appariva un monaco che definiva le tecniche di meditazione e il rigore che avviano lo zen vero e proprio. Egli si chiamava Eihei Dōgen (1200-1253), la sua scuola, Sōtō Zen: sōtō significa silenzio, la meditazione va praticata nel totale silenzio, senza musiche o ripetizioni di suoni e parole, i koan, come prescrive il buddhismo chan. Una scoperta importante per chi scrive è stata la lettura di alcune parti dello Shōbōgenzo. Il tesoro dell’Occhio del Vero Dharma di Dōgen. In Italia manca ancora un’edizione integrale, ma in internet, fra le diverse, circola la traduzione americana pubblicata dalle edizioni del tempio del Monte Shasta, in California. Durante i miei viaggi sequoianti attraversai la grande foresta di Shasta, un’immensa pineta a perdita d’occhio, ore e ore di viaggio circondato da conifere alte cinquanta, sessanta metri. In Italia le migliori traduzioni sono edite dalla Ubaldini, per la cura del professor Aldo Tollini (Università di Venezia).
Per molti meditare vuol dire intraprendere un percorso che dovrebbe condurre, prima o poi, al satori, al risveglio, al pinyin, al nirvana o nibbana: all’illuminazione. Dōgen si libera di questo traguardo: per lui la meditazione è senza competizione e senza assilli, senza obiettivi se non il raggiungimento di una pace interiore. Lo spiega bene in un testo composto al rientro dagli anni di studio e meditazione in Cina: il Fukan zazengi, principi dello zazen per tutti. Meditare in silenzio e il raggiungimento della pace non sono due condizioni separate e consecutive: il risveglio sta dove siamo noi che pratichiamo zazen. È già dentro di noi, ogni persona che si siede e pratica è già un Buddha. Dōgen conia un termine per esprimere questa sintesi: shūshō, ossia pratica-illuminazione. «Fate pensiero il non-pensiero. Il non-pensiero! Come pensarlo? Con il senza-pensiero E…] Lo zazen non consiste in una tecnica (o anche arte) da imparare: è semplicemente il Dharma della pace». Traduzione: fare il vuoto, liberarsi da ricorsi, tensioni, dipendenze, giudizio. Decostruirci, sottrarci a noi stessi, al canto continuo del nostro io-ego. Silentium!
Per assistere ai primi passi del buddhismo in Cina, proveniente dall’India, si risale al 68 d.C., quando venne fondato nella città di Luoyang, una delle sette grandi capitali degli imperi cinesi antichi, il Tempio del Cavallo Bianco (Baima Si). A testimonianza della fecondità del buddhismo in tale città è oggi disponibile quella che probabilmente è la più numerosa concentrazioni di immagini dedicate al Buddha: nelle cave o grotte di Lung Men sono raccolte oltre centomila rappresentazioni, che variano dai diciotto metri di altezza ai pochi centimetri. La figura cardine che sviluppa il buddhismo di matrice indiana in una filosofia cinese, tanto da mettere in crisi il confucianesimo, è Bodhidharma (483 -540), ventottesimo patriarca del buddhismo indiano. È stato fondatore del buddhismo chan e, secondo alcune fonti storiche, delle pratiche di combattimento Xiao lin (Shaolin). Il buddhismo chan si spargerà nei secoli successivi in tre distinte aree dell’Asia orientale: in Giappone (zen), in Corea (son), in Vietnam (thien, l’unico paese rimasto indipendente dalla Cina).
Il buddhismo indiano si divide in due grandi scuole: il mahayana (grande veicolo) che proclama la supremazia del bodhisattva, ovvero la via del risveglio (in sanscrito bodhi significa “risveglio” — per chi se ne ricorda il protagonista del film Point Break si faceva chiamare Bodhi), dell’illuminazione, e il theravada (scuola degli anziani), che è il più antico buddhismo, quello che nasce direttamente dagli insegnamenti del Buddha storico, Siddharta Gautama (566-486 a.C.). L’insegnamento di Gautama si basa sull’esistenza di tre concetti basilari e quattro nobili verità. I tre concetti basilari sono anikka (l’impermanenza, nulla resta inalterato), dukkha (la sofferenza, l’uomo prova sofferenza per la sua stessa esistenza), anatta (non-sé, depotenziamento della centralità dell’io, potremo tradurre da europei). Invece le quattro nobili verità sono: sofferenza, la causa della sofferenza, la cessazione della sofferenza, il sentiero di liberazione dalla sofferenza. La liberazione è nibbana, o nirvana, che noi traduciamo con illuminazione. Personalmente prediligo il termine risveglio, meno cinematografico. Otto sono gli strumenti per perpetrare la liberazione, che costituiscono il Nobile Ottuplice Sentiero: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione. Ciascuno di questi concetti e principi è un mondo a parte da esplorare. Nella grossolanità della traduzione immediata, si perdono sfumature che andrebbero indagate a fondo. La strada che conduce al risveglio è detta Dhamma. La definisce Thich Nhat Hanh: «Il Dharma è una specie di pioggia che penetra non soltanto attraverso le parole, ma anche attraverso ciò che vedete intorno a voi, ciò che ascoltate e ciò che toccate […] Quando vedete una sorella camminare in pace e gioia o sedere stabilmente, quello è il Dharma»
Da. Tiziano Fratus, “Il sole che nessuno vede. Meditare in natura e ricostruire il mondo“, Ediciclo editore, 2016.
Per approfondire:
Libri di Tiziano Fratus:
You need to login or register to bookmark/favorite this content.