
Vivere la vita come un’opera d’arte è una condizione che deriva inevitabilmente dall’attivazione del processo del risveglio, secondo Stephen Batchelor, perché la consapevolezza è anche un’esperienza di bellezza.
Non appena l’immaginazione si attiva nel processo del risveglio, recuperiamo la dimensione estetica della pratica del dharma. L’acquisizione di una vigile attenzione, ad esempio, non si può adeguatamente comprendere se la si rappresenta come un mero insieme di trasformazioni cognitive ed affettive, perché tale consapevolezza è anche un’esperienza di bellezza. Quando l’agitazione della nostra coscienza si placa e raggiungiamo la quiete che ci consente una più intensa attenzione, la nostra percezione della spontanea bellezza del mondo ne risulta accresciuta. Siamo allora presi dalla meraviglia davanti allo squisito disegno di una foglia, al gioco della luce contro la corteccia di un albero, ai riflessi e alle increspature dell’acqua in una pozzanghera, allo struggente splendore di uno sguardo. La nostra capacità di apprezzare l’arte ne risulta anch’essa arricchita: una frase musicale, il verso di una poesia, una figura di danza, uno schizzo a matita, un vaso di ceramica sono ora in grado di parlarci con un’intensità e una profondità senza precedenti.
Le grandi opere d’arte in tutte le culture hanno la capacità di racchiudere, entro la costrizione della loro forma, sia il pathos dell’angoscia che la visione della sua soluzione. Si considerino, ad esempio, la seducente prosa di Proust o lo haiku di Basho, gli ultimi quartetti e sonate di Beethoven, la tragicomica pittura di Sengai o le tremende tele di Rothko, i luminosi autoritratti di Rembrandt e Hakuin. Tali opere non si risolvono in immagini consolatorie o fantastiche che consentano di trascendere il dolore. Esse accettano l’angoscia senza lasciarsene sopraffare, e la rivelano come l’elemento che conferisce alla bellezza la sua dignità e la sua profondità.
Le quattro nobili verità del Buddha non ci forniscono soltanto un paradigma di libertà cognitiva ed affettiva, ma ci offrono anche un criterio di valutazione per la fruizione estetica. Ogni opera d’arte capace di rendere più profonda la nostra comprensione dell’angoscia, di indurci ad allentare la coazione del desiderio egoistico, di rivelare il gioco dinamico del vuoto e della forma, e di ispirare uno stile di vita che conduca a tali mete reca il marchio della bellezza autentica. E tale effetto può essere conseguito da opere non buddhiste, mentre opere dichiaratamente buddhiste possono risultare incapaci di ottenerlo.
La stessa concezione estetica ispira i compiti immaginativi della creazione dell’io e del mondo. Le quattro nobili verità sono esortazioni ad agire non soltanto con saggezza e compassione, ma anche con creatività e consapevolezza estetica. Le nostre parole, le nostre azioni, la nostra stessa presenza nel mondo creano e lasciano delle impronte nella mente degli altri, proprio come uno scrittore imprime dei segni con la sua penna sulla carta, il pittore con il suo pennello sulla tela, il vasaio con le sue dita sull’argilla. Il mondo umano è come un grande strumento musicale sul quale noi suoniamo la nostra parte, e simultaneamente ascoltiamo le composizioni altrui. La creazione di noi stessi nell’immagine configurata dal risveglio non è un processo soggettivo, ma intersoggettivo. Non possiamo scegliere se impegnarci o no nel mondo, possiamo solo scegliere come farlo. Che ci piaccia o meno, la nostra vita è un racconto che si svolge in una continua relazione con gli altri in ogni dettaglio del nostro essere: le espressioni del nostro volto, il linguaggio del nostro corpo, i nostri abiti, le inflessioni dei nostri discorsi.
Da: Stephen Batchelor, “Buddhismo senza fede“, Neri Pozza, 1998.
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