
Stephen Batchelor spiega come portare il nirvāna nella vita quotidiana, adottando una nuova prospettiva sulla vita, oltre le identità e i luoghi a cui normalmente ci aggrappiamo.
Il nirvāna nella vita quotidiana
Il nirvāna può essere paragonato all’aprirsi improvviso di uno spazio interno alla propria esperienza in cui le inclinazioni innate si affievoliscono e la reattività svanisce. In tali momenti si intravede come si sia liberi di agire in un modo non determinato dalla reattività, e come ciò renda possibile l’uso della ragione pratica per decidere un altro tipo di futuro. Ma questi momenti di vuoto nirvanico tendono a scomparire con la stessa rapidità con cui appaiono.
Il risveglio portò Gotama a vedere tanto ciò che rendeva possibile il fiorire dell’umanità quanto ciò che lo inibiva. Coltivare una visione chiara della propria mortalità e condizionalità, impegnarsi in un sentiero di ragione pratica, aspirare a rispondere alla vita in modi non determinati dalla reattività sono la maniera in cui concepì la vita fondata e radicata nel dharma. Ma egli riconobbe anche che vedere le cose in questo modo “è difficile per la gente che ama, si delizia e gode del suo luogo”. Finché gli individui sono interessati al loro luogo (ālaya), rimarranno ciechi al loro fondamento (thāna). Sebbene Gotama dichiarasse che tale fondamento era chiaramente visibile, riconobbe che era “difficile da vedere” (dudaso).
Poiché ālaya (posto) e thāna (fondamento, base) hanno significati simili in pali, forse Gotama sta facendo un gioco di parole, suggerendo che quello che le persone considerano il loro fondamento, non lo è affatto: è semplicemente un posto provvisorio a cui si aggrappano nella futile speranza di trovare una sicurezza esistenziale in un mondo profondamente insicuro.
I posti a cui appartengo sono molteplici: una razza, un genere, un’etnicità, una cultura, una nazione, una città, un paese o villaggio, una posizione sociale, un impiego, un partito politico, una religione (o una mancanza della stessa), per non menzionare un’identità psicologica ed emotiva come ‘io’. In momenti diversi anch’io mi sorprendo a deliziarmi e a godere di tutte queste cose. Eccomi: un europeo bianco scozzese, che vive in un villaggio vicino Bordeaux, un intellettuale della classe media, uno scrittore e un insegnante liberale, un sostenitore dei Verdi, un buddhista laico che passa molto tempo a narrare, rielaborare e preoccuparsi della storia del ‘me’ nella mia testa.
È impossibile non considerare se stessi in questi termini. Il Buddha può aver smesso di deliziarsi e godere del suo posto ma, finché è vissuto, appartenne alla dinastia solare, fu un suddito del re Pasenadi di Kosala, il padre di un figlio (Rāhula), un nobile proveniente dalla città di Kapilavatthu, un cugino del capo Sakiya, Mahānāma. E poiché continuò ad abitare lo stesso corpo, sistema nervoso e cervello con cui era nato, non vedo neanche una ragione per cui il suo senso primario intuitivo di essere la persona che era sarebbe dovuto cambiare in maniera significativa.
‘Lasciare la casa’ per divenire un asceta senza dimora pertanto significa abbandonare un modo particolare di relazionarsi con la propria casa o posto piuttosto che ripudiarli. Quanti giovani idealisti (come me stesso da giovane) hanno lasciato alle spalle la famiglia e la patria con grande ostentazione della loro rinuncia a tutto per divenire monaci in un paese straniero solo per scoprire che hanno trasferito tutto il deliziarsi e il godere da un posto a un altro, soltanto più esotico? Detestare un posto solo per deliziarsi in un altro, dal punto di vista di Gotama, non risolve nulla. Senza un genuino ripensamento della relazione di base verso la vita stessa, anche perseguire una vocazione ‘spirituale’ sarà solo una perdita di tempo.
Qualsiasi senso di conforto e di sicurezza si possa ricavare dall’identificarsi con un posto è ottenuto al prezzo di alienare se stessi dal proprio fondamento. Un posto è seducente perché offre una relativa permanenza e affidabilità in un mondo impermanente e inaffidabile. Sentire di avere un posto mi rassicura su chi sono, e la mia identità viene costantemente affermata sia dal mio continuo monologo interiore sia dal modo in cui gli altri si rivolgono a me e mi trattano. Solo quando il proprio posto è minacciato (dal fallimento del matrimonio, la perdita del lavoro, l’occupazione del territorio del proprio paese, una crisi di fede, il venir meno della propria salute, un crollo psicologico) si comprende quanto sia fragile e provvisorio. In quei momenti si può essere sommersi da una visione dell’abisso terrificante e seducente del nostro fondamento.

L’illusione “anatra-coniglio”.
Gotama descrive il sorgere condizionato, il nirvāna e il dharma come cose che egli vede (dasati), mostra (deseti) e rende visibili. Il suo risveglio non fu ottenuto grazie alla conoscenza privilegiata di una verità suprema, ma grazie al vedere se stesso e il suo mondo in un modo radicalmente diverso. Il cambiamento esistenziale che esperì si può comprendere dal punto di vista percettivo come un mutamento di Gestalt, come quando si vedono due visi di profilo invece che un vaso o, nell’esempio di Ludwig Wittgenstein, un coniglio invece di un’anatra. Posto e fondamento non sono stati separati ma due diversi modi di configurare la stessa vita. Posso rappresentare me stesso come una persona sicura della sua identità e del suo posto che segue senza esitazioni il richiamo delle sue reazioni abituali, o posso configurarmi come una persona in equilibrio su un terreno mutevole e in movimento, che aspira a rispondere alle richieste particolari di ogni situazione senza essere condizionata dalla reattività. La sfida di praticare il dharma consiste nello scoprire come stabilire le condizioni ottimali intorno a cui la vita umana può fiorire dal suo fondamento.
Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica“, Astrolabio Ubaldini, 2018.
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Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica

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