Settimana 9

moralità, concentrazione e saggezza

Pratichiamo con Zen in the City - Settimana 9

moralità, concentrazione e saggezza

Il tema di questa settimana è la visione profonda. Se la meditazione avesse uno scopo, esso si potrebbe identificare con la visione profonda. Man mano che ci si inoltra in un percorso di pratica, si possono notare dei cambiamenti importanti nella propria vita. Non si tratta di essere più calmi o disponibili verso gli altri o comunque “diversi” da quello che si era all’inizio. Né tanto meno di diventare persone migliori. Si cambia il modo di vedere le cose. Sempre più in profondità. Attenzione: non si cambiano idee sulle cose, anzi ci si libera sempre di più dalle idee e dalle opinioni, per prendere contatto in modo diretto con ciò che c’è. Sempre più senza parole, senza concetti, ma con sempre maggiore apertura. Tutto questo va naturalmente coltivato giorno dopo giorno, grazie alla meditazione Vipassana e ad altre tecniche per sviluppare la visione profonda.

Esplora le diverse proposte che trovi nel menù e adottale per la tua pratica ne corso di questa settimana. Decidi tu liberamente quanto praticare, ma ricorda che la cosa più importante è praticare tutti i giorni, anche per pochi minuti! ?

Tecnica dell’etichettatura (labeling)

L’etichettatura (labeling) o annotazione mentale (mental noting) è una tecnica tipica della meditazione di consapevolezza (Vipassana). Essa consiste nell’etichettare le esperienze – sensoriali, emotive o cognitive – man mano che si presentano.Tipicamente consiste nell’usare una sola parola per descrivere ciò che si sta sperimentando nel momento attuale. Ecco come descrive questa pratica Gil Fronsdal, un famoso insegnante di meditazione Vipassana.

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A differenza della maggior parte dei pensieri, l’annotazione non è discorsiva. Non comporta analisi o giudizi. Piuttosto, diamo semplicemente alla nostra esperienza attuale un’etichetta di una parola. Per esempio, quando sentiamo un suono notiamo ‘sentire’ senza pensare ulteriormente al suono. Altre note mentali comuni sono ‘vedere’, ‘toccare’, ‘sentire’ e ‘pensare’.

Ad alcune esperienze possono essere date etichette più descrittive. Per esempio, le sensazioni possono essere annotate come ‘calore’, ‘freschezza’, ‘pressione’, ‘tensione’, e così via. Le emozioni possono essere nominate: “felicità”, “tristezza”, “eccitazione”, “paura”. L’attività mentale può essere riconosciuta come ‘volere’, ‘pianificare’, ‘resistere’, e così via. Con la consapevolezza della respirazione, una nota comune è “salire” quando la pancia o il petto si sollevano durante l’inspirazione, e “scendere” quando si espira.

Di solito, una nota specifica viene ripetuta fino a quando l’esperienza da annotare scompare, è sufficientemente riconosciuta, o non è più predominante.

Annotare in meditazione ha molte funzioni. La principale è quella di mantenere il meditatore presente – a volte è chiamato un “ancoraggio” al presente. È meno probabile che la mente vaghi via se si mantiene un flusso costante di annotazioni rilassate. Se la mente vaga, la pratica dell’annotazione può rendere più facile ristabilire la consapevolezza.

Un’altra funzione dell’annotazione è quella di riconoscere meglio ciò che sta accadendo: più chiaro è il riconoscimento, più efficace è la consapevolezza. Nominare può rafforzare il riconoscimento. A volte questo può essere una sorta di dire la verità, quando siamo riluttanti ad ammettere qualcosa su noi stessi o su ciò che sta accadendo.

Una terza funzione dell’annotare è quella di aiutare a riconoscere i modelli nella propria esperienza. Una nota ripetuta frequentemente rivela un’esperienza ricorrente. Per esempio, chi è persistentemente preoccupato può non rendersene conto finché non vede quanto spesso annota “preoccupazione”.

E in quarto luogo, come descritto sopra, l’annotazione mentale dà alla mente qualcosa da fare piuttosto che lasciarla a se stessa.

Una quinta funzione è districarci dall’essere preoccupati o eccessivamente identificati con l’esperienza. L’annotazione può aiutarci a “allontanarci” in modo da poter vedere più chiaramente. Per esempio, annotare il ‘volere’ può tirarci fuori dalla preoccupazione di qualcosa che vogliamo. Questo può non essere immediato, ma notando ripetutamente “volere, volere”, si può essere in grado di essere consapevoli del volere senza esserne catturati. Come antidoto all’annegamento in una forte emozione o in un pensiero ossessivo, l’annotazione mentale è talvolta chiamata un “salvagente”.

L’annotazione può anche aiutare a mantenere una forma non reattiva di attenzione. Notando con calma ed equanimità ciò che sta accadendo, abbiamo meno probabilità di essere coinvolti in reazioni emotive. […]

Il tono della voce interiore che annota può rivelare reazioni non proprio equanimi a ciò di cui stiamo cercando di essere consapevoli. L’annotazione può sembrare dura, annoiata, spaventata, esitante o eccitata, per citare solo alcune possibilità. Notando e regolando il tono, possiamo diventare più equilibrati ed equanimi.

Ogni persona deve trovare il proprio modo di annotare – non è una tecnica fissa. E quando le circostanze cambiano, il modo di annotare può cambiare. A volte, ciò che è più utile è annotare con calma tutto ciò di cui si è consapevoli. Altre volte, annotare può essere utile quando si è facilmente distratti ma non quando si è tranquilli. […]

La pratica dell’annotazione ha una serie di insidie. Può diventare rozza o meccanica. Quando uno se ne accorge, è spesso utile fare una pausa e rilassarsi prima di ricominciare. Un altro pericolo è concentrarsi troppo sull’annotazione a spese dell’essere consapevoli. Una versione di questo è l’approccio “check-list” alla mindfulness – si crede che sia sufficiente notare semplicemente un’esperienza. L’annotazione è per lo più una leggera spinta per incoraggiare la consapevolezza, in modo che l’attenzione all’esperienza sentita aumenti. Un’altra insidia è che annotare può diventare un tentativo di controllare o guidare la propria esperienza invece di riconoscerla semplicemente. Oppure può essere usato per creare una distanza artificiale dall’esperienza: nominare diventa un sostituto del sentire. Rilassarsi e permettere alla consapevolezza di diventare più ricettiva può aiutare in questo senso.

L’annotazione può diventare un ostacolo alla meditazione, se si comincia a pensare a quale parola usare. A volte i principianti dell’annotazione mentale si preoccupano troppo della nota “giusta”. L’etichetta più ovvia è abbastanza buona. Se una nota vaga come “qui” o “questo” aiuta a rimanere presenti, ha compiuto la sua funzione primaria. A volte la precisione nell’annotazione può invece affinare la consapevolezza e aiutare l’insight.

Alcune persone trovano che, man mano che la mente diventa più tranquilla nella meditazione, possono aver bisogno di regolare il relativo “volume” o “intensità” dell’annotazione per mantenerla in armonia con l’immobilità meditativa. Come la mente diventa più tranquilla, così dovrebbe essere l’annotazione mentale. Può diventare un sussurro sempre più morbido. A volte le parole non sono più necessarie – può bastare un morbido “hmm”.

Un principio fondamentale per la pratica dell’annotazione mentale è di usarla quando è utile e di evitarla quando non lo è. La pratica di Mindfulness mira a coltivare la consapevolezza, l’insight e la liberazione. Può essere abbastanza soddisfacente quando l’annotazione sostiene questi obiettivi. Può ricordarci che tutte le nostre facoltà possono essere usate al servizio della libertà, comprese le nostre funzioni cognitive come dare un nome alla nostra esperienza.

[Testo di Gil Fronsdal tratto dal sito dell’Insight Meditation Center]

Il Sutra sui quattro fondamenti della consapevolezza (Satipatthana Sutta) è considerato uno dei più importanti testi della tradizione buddhista e riferimento principale della meditazione Vipassana. Nel sutra si descrive appunto come funziona la meditazione di consapevolezza, quella da applicare quando si sta seduti sul cuscino. Istruzioni precise in tal senso le troverete anche nel brano di questa settimana, di Joseph Goldstein.

Il Satipatthana Sutta contiene anche indicazioni molto utili per le situazioni della vita quotidiana. Vediamo alcuni esempi.

  1. Il testo dice che il praticante si radica nell’osservazione del corpo nel corpo. Cos’è l’osservazione del corpo nel corpo? È un modo di osservare il proprio corpo non concettuale, non idealizzato e nemmeno giudicante. Non è un guardarsi allo specchio e pensare “madonna, come sto invecchiando!”. È osservare il corpo nella sua concretezza, per quello che è. Si può praticare ad esempio così: “Inspirando, sono consapevole di tutto il mio corpo. Espirando, sono consapevole di tutto il mio corpo. Inspirando, calmo le attività del corpo. Espirando, calmo le attività del corpo”. O anche così: quando cammina, il praticante è consapevole: “Sto camminando”. Quando è in piedi, è consapevole: “Sono in piedi”. Quando è coricato, è consapevole: “Sono coricato”. In qualsiasi posizione si trovi, egli è consapevole della posizione del corpo. ecco questo lo possiamo fare in ogni momento della giornata e qualsiasi cosa stiamo facendo ed è molto importante.
  2. Un’altra possibilità è quella dell’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni. Ogni volta che il praticante prova una sensazione piacevole, dice il Buddha, egli è consapevole: “Sto provando una sensazione piacevole”. Ogni volta che prova una sensazione dolorosa, è consapevole: “Sto provando una sensazione dolorosa”. Ogni volta che prova una sensazione né piacevole né dolorosa, è consapevole: “Sto provando una sensazione neutra”. Questo tipo di constatazioni apparentemente banali, sono la chiave della liberazione. Se ogni volta che proviamo qualcosa di spiacevole in vece di reagire con il rifiuto, semplicemente ne prendiamo atto, ci esercitiamo a considerare quel qualcosa non come una minaccia personale, ma semplicemente un fenomeno. Anche questo possiamo farlo sempre e comunque: col caldo, col freddo, con le zanzare, con le parole poco gentili del collega in ufficio.
  3. A un livello un po’ più sofisticato c’è l’osservazione degli oggetti mentali negli oggetti mentali. Quando nel praticante è presente la rabbia, è consapevole: “In me è presente la rabbia”. Quando la rabbia non è presente, è consapevole: “In me non è presente la rabbia”. Quando la rabbia incomincia a sorgere, egli ne è consapevole. Quando la rabbia già sorta viene abbandonata, egli ne è consapevole. Quando la rabbia già abbandonata non sorgerà nuovamente in futuro, egli ne è consapevole. Lo stesso per qualsiasi altro stato mentale. Non è così difficile come può sembrare. Provaci!

Questi tre esempi non esauriscono certo il potenziale di un testo come il Satipatthana Sutta, ma su di essi c’è già moltissimo da lavorare. Non pretenderai di esaurire l’argomento in una settimana, vero?

La gatha è un verso recitato mentalmente, in sincronia con il respiro, come supporto alla pratica di consapevolezza, sia nella vita quotidiana, sia nella pratica meditativa vera e propria. L’uso della gatha è stato reso popolare in tempi moderni dal maestro zen Thich Nhat Hanh. Ogni settimana proponiamo una gatha, da recitare in una specifica situazione in questo periodo di 7 giorni.

Ecco la gatha di questa settimana:

Gettando la spazzatura
Nella spazzatura posso vedere una rosa.
Nella rosa posso vedere compost.
Ogni cosa è in trasformazione,
l’impermanenza è vita!

Sarebbe troppo facile dire che la visione profonda è l’opposto della superficialità. Anzi, non sarebbe neanche del tutto corretto. Perché coltivare la visione profonda non significa approfondire. Non ha niente a che fare né col pensiero, né con la conoscenza. È una pratica costante di approccio diretto alla realtà delle cose così come ci si presenta momento dopo momento. Non richiede di conoscere una particolare teoria, semmai di accostarsi a tutto con apertura, stupore, meraviglia. Con la “mente di principiante”, che vuole imparare tutto perché ritiene di non sapere nulla.

Gli aspetti che questa settimana si suggerisce di approfondire per coltivare la visione profonda sono due in particolare.

  1. Praticare molto. La meditazione di visione profonda (“vipassana”) richiede tempo e costanza. Quando la seduta di pratica “formale” dura 30 o 40 minuti la qualità cambia, rispetto a durate più brevi. Anche darsi la possibilità di partecipare a ritiri di meditazione, compatibilmente con gli altri impegni della vita, è importantissimo. Un tempo prolungato dedicato esclusivamente alla pratica apre realmente la mente alla possibilità di “insight” basati sull’osservazione della propria mente.
  2. Stare nel silenzio. Il silenzio è l’humus più fertile sul quale fare crescere la capacità di visione profonda. Se al silenzio della pratica seduta fa eco un silenzio di fondo nelle occupazioni vita quotidiana, aumentano le possibilità di osservare la realtà dentro la realtà. Cioè non in astratto, ma nel suo concreto dispiegarsi della vita reale. Qui il silenzio va inteso in tutti i suoi aspetti. Silenzio dell’ambiente, senza ridondanti sottofondi musicali e radio-televisivi. Silenzio delle conversazioni, nel senso di usare la parola con discrezione e consapevolezza. Silenzio della mente, che con il tempo può imparare ad acquietarsi senza essere perennemente attiva con un profluvio di pensieri inutili, se non addirittura nocivi. Tutte le tradizioni spirituali prevedono periodi di digiuno e momenti di deserto, proprio perché la visione richiede spazio e non tollera la confusione.

Le istruzioni dettagliate di Joseph Goldstein per la meditazione Vipassana

Una delle forme di meditazione più apprezzate è la Vipassana, o meditazione di visione profonda, e uno dei maestri di Vipassana oggi più accreditati è Joseph Goldstein. In questo testo ci spiega concretamente come si fa.

Consapevolezza del respiro

Si mantenga l’attenzione nitidamente focalizzata sulle sensazioni e sui sentimenti di ogni respiro; si sia presenti assieme al respiro stesso laddove, all’interno del corpo, lo si sente più chiaro e distinto: nell’addome che si solleva e si abbassa, o nei movimenti del torace, o ancora nell’inspirazione e nell’espirazione attraverso le narici. Si osservi con quanta accuratezza e con quanta continuità si riesce a percepire le sensazioni del ciclo completo della respirazione, o dell’intero movimento di sollevamento e abbassamento.

Ci si serva di una delicata annotazione mentale, limitata a ‘alto’ e ‘basso’, o a ‘dentro’ e ‘fuori’, a ogni respiro. Se, poi, tra l’uno e l’altro respiro si ha una pausa, si sia consapevoli di qualche punto di contatto, come ad esempio tra le natiche e il cuscino, o tra le ginocchia e il pavimento, o delle labbra che delicatamente si sfiorano, percependo con estrema accuratezza le particolari sensazioni che in quel punto si manifestano. Se tra l’uno e l’altro respiro la pausa è molto lunga, si può cercare di essere consapevoli di un’intera serie di sensazioni di contatto finché il respiro successivo non venga da solo: senza, pertanto, affrettare o accelerare il processo della respirazione. Quando, poi, sopraggiunge il respiro successivo, si riporti l’attenzione alla respirazione, notando e annotando tale esperienza con la più grande cura.

Si mantenga desta la consapevolezza e la presenza mentale per ogni respiro, per ogni movimento di sollevamento e di abbassamento del torace o dell’addome, o dell’ingresso e dell’uscita dell’aria attraverso le narici. Questa consapevolezza, a sua volta, dovrà essere morbida e rilassata, affinché il respiro possa conservare il suo proprio ritmo. Si percepiscano le sensazioni di ogni respiro con estrema accuratezza, senza attendersi nulla in particolare, ma semplicemente annotando che cosa effettivamente avviene momento dopo momento.

A volte il respiro sarà nitido, e a volte indistinto; a volte forte, e a volte molto fiacco; potrà essere lungo o breve, liscio o scabroso. Ma si sia presenti assieme a esso, così come esso stesso si rivela, consapevoli del modo in cui variamente si modifica.

Annotazione mentale delle sensazioni

Se, eventualmente, qualche suono dovesse diventare preponderante, e distrarre l’attenzione dal respiro, si noti semplicemente ‘ascolto, ascolto’, concentrando l’attenzione e la consapevolezza sulla specifica esperienza del suono, senza lasciarsi coinvolgere dal concetto di ciò che ha provocato il suono stesso, come ‘una macchina’ o ‘il vento’, ma limitandosi a restare assieme alla vibrazione dell’ascolto. Si osservi, a questo punto, se si è in grado di stabilire la differenza tra il concetto del suono e l’esperienza diretta e intuitiva del suono stesso. Si prenda nota dell”ascolto’, e quando quell’esperienza non è più predominante, o non richiama più l’attenzione, si ritorni al respiro.

Spesso potrà accadere che alcuni suoni si manifestino sullo sfondo della propria consapevolezza: ciò vuol dire che, sebbene se ne abbia consapevolezza, essi non riescono a distrarre l’attenzione dal respiro. In quel caso, non c’è nemmeno bisogno di annotare mentalmente l”ascolto’. Ci si limiti a osservare il respiro, lasciando la consapevolezza dei suoni di sfondo là dov’è.

La continuità dell’attenzione e del processo di annotazione mentale  rafforza la presenza mentale e la concentrazione: pertanto, con tutta la delicatezza della propria mente, si cerchi di rendere questo sforzo di annotazione il più continuo possibile. Se, poi, si perde coscienza, se ci si distrae, se la mente va raminga, si annoti questo ‘divagare’ non appena se ne è consapevoli, e si torni quindi al respiro.

Quando, invece, sono le sensazioni fisiche a divenire predominanti e a distrarre l’attenzione dal respiro, si concentri tutta la presenza mentale, tutta la propria attenzione su quella particolare sensazione. Si consideri con quanta accuratezza si è in grado di osservare e percepire la qualità della sensazione: si tratta di durezza o di mollezza, di calore o di freddo, di fremito, di formicolio, di bruciore, di stiramento, di irrigidimento? Si percepisca, dunque, di che sensazione si tratta e si annoti con la massima diligenza che cosa succede alla sensazione stessa quando la si osserva. Diviene più forte, diviene più debole, svanisce, si allarga, si rimpicciolisce?

A volte è anche difficile trovare una parola capace di descrivere esattamente una particolare sensazione: non si perda troppo tempo, allora, a pensarci su. Se non si riesce a trovare all’istante la parola giusta,  per intuito, basterà annotare mentalmente ‘percezione’, o ‘sensazione’.

Consapevolezza di tutto ciò che si manifesta

Massima importanza ha, poi, la consapevolezza. L’annotazione, in realtà, non è che un sussidio per indirizzare la mente con precisione verso l’oggetto prescelto, al fine di percepire di che sensazione si tratta e di annotare che cosa succede alla sensazione stessa nel momento in cui la si osserva. Si può manifestare, ad esempio, un forte dolore alla schiena o alle ginocchia: la mente, allora, vi si rivolge, ed esso viene percepito come un bruciore; quindi si annota che si tratta di bruciore. Ma, mentre lo si osserva, si può notare che il dolore stesso si fa più forte o più debole, si espande o si restringe in una zona più limitata. A volte, addirittura, può scomparire.

Quando, poi, quella determinata sensazione non è più predominante, si ritorni al moto del respiro: dentro e fuori, oppure in alto e in basso. Si cerchi di realizzare all’interno della propria mente l’equilibrio fra una condizione di morbidezza e di rilassamento, ossia l’assestarsi nell’istante presente, e uno stato di vigilanza e di accuratezza. Si noti con cura e con delicatezza, momento per momento, qualunque oggetto si manifesti, per poi tornare al respiro, che è il proprio oggetto principale, quando più nulla è predominante o capace di distrarre la mente.

Osservazione della mente

Si annotino anche tutte le reazioni mentali alle differenti percezioni. Se, ad esempio, mentre si osservano sensazioni di dolore, si nota una reazione di avversione, o di inquietudine, o di timore, si annotino tutti questi stati mentali e li si osservi con estrema cura, cercando di vedere anche che cosa succede quando li si nota. Quando si nota ‘paura’, o ‘avversione’, o ancora ‘inquietudine’, quei sentimenti si fanno più forti o più deboli, o addirittura scompaiono? Se, d’altra parte, si osservano sensazioni fisiche piacevoli, per le quali si suscita gioia o attaccamento, si noti tutto alla stessa maniera.

Non bisogna, poi, andare in cerca di tanti oggetti diversi. La consapevolezza deve conservarsi semplice, radicata nell’oggetto principale, che è il respiro, e limitarsi ad annotare i diversi oggetti nel momento del loro manifestarsi. L’idea, insomma, è di non aspettarsi nulla di speciale e di non cercare di far accadere nulla di speciale; si tratta, al contrario, di notare che cos’è che effettivamente accade.

Se sono i pensieri a occupare la mente, non appena ci si rende conto di star pensando, si annoti con delicatezza: ‘pensare’, oppure ‘divagare’. A volte ci si accorgerà dei pensieri nel momento stesso in cui questi sorgono, a volte a metà del loro corso. A volte, ancora, la mente non vorrà esserne consapevole finché non saranno compiuti. Si noti, dunque, il momento in cui se ne è divenuti consapevoli, senza per ciò avanzare giudizi o valutazioni. Qualunque sia il punto in cui la mente s’accorge dei pensieri, si noti semplicemente: ‘pensare’, e quindi si ritorni delicatamente al proprio respiro. Non bisogna entrare in guerra o in conflitto con il processo del pensiero; ci si limiti, al contrario, ad annotarlo, in qualunque punto se ne divenga consapevoli.

Allo stesso modo, se la mente viene occupata da immagini o raffigurazioni, si annoti: ‘vedere’; se sono i suoni a divenire predominanti, si annoti: ‘udire’. La consapevolezza dovrà allora scaturire da una condizione di ricettività mentale, per poi tornare ad acquietarsi, morbida e aperta. A mano a mano che si manifestano i diversi oggetti dell’esperienza, ci si dedichi a essi con attenzione e presenza mentale, e si annoti che cosa accade a essi quando li si osserva.

A volte potrà accadere che la mente si confonda per l’eccessivo numero di oggetti, o non riesca a individuare con nitida consapevolezza il punto sul quale focalizzarsi. In tali casi, si annoti quel genere di confusione o di incertezza, e si ritorni quindi all’ancora del respiro. Il respiro è particolarmente utile come oggetto fondamentale della pratica meditativa perché è quasi sempre presente; è possibile, dunque, in ogni occasione, ritornare a esso, stabilirsi in esso, percepirlo, annotarlo. E quando poi la mente si sente imperniata sul respiro, si torni nuovamente ad annotare i diversi oggetti che possono manifestarsi.

Consapevolezza di stati mentali ed emozioni

Nel caso che siano predominanti vari stati mentali o emozioni, è necessario che anch’essi divengano oggetto della propria consapevolezza. Se, infatti, non ci si rende conto del loro manifestarsi, essi agiscono come filtri inconsci della propria esperienza, così che si comincia a vedere ogni cosa attraverso il filtro deformante di una determinata emozione. A volte, queste emozioni nascono assieme a particolari pensieri o immagini, o a specifiche sensazioni fisiche. Può trattarsi di sentimenti di felicità o di tristezza, di frustrazione, di ira, di fastidio, di gioia, di interesse, di eccitazione, di irrequietezza, o di paura: possono determinarsi, insomma, stati mentali dei più diversi generi.

Non appena ci si rende conto che la mente è occupata da uno di questi  stati mentali, o emozioni, o umori, lo si annoti in maniera specifica, in modo da non esserne assorbiti e da non identificarsi con esso. Questi stati mentali, del resto, al pari di tutti gli altri oggetti, svaniscono così come si sono manifestati. Non sono l’ ‘io’, né il sé, e non appartengono a nessuno. Si noti, dunque, quel particolare stato mentale, ci si dischiuda alla sua esperienza, e si torni quindi al respiro o alle sensazioni fisiche.

Si sorvegli con cura particolare l’eventuale insorgere dei cosiddetti cinque impedimenti: desiderio, avversione, torpore, irrequietezza, e dubbio. Essi sono profondamente radicati nella mente, ed è dunque facile perdersi in essi e con essi identificarsi. Si faccia, pertanto, uno sforzo del tutto particolare per annotare questi specifici stati mentali: quanto più rapidamente si riuscirà ad osservarli, e quanto più in prossimità del loro inizio, tanto minore sarà la loro forza.

Consapevolezza delle intenzioni

Ma oltre all’attenzione che va dedicata al respiro, alle sensazioni, ai suoni, ai pensieri, alle immagini, alle emozioni, e agli stati mentali, c’è un ulteriore fattore mentale che merita di essere individuato e annotato con cura particolare nell’ambito della pratica meditativa, poiché ha una funzione essenziale nel processo di apertura delle porte della visione profonda. Si tratta del divenire consapevoli delle diverse intenzioni mentali, e della loro conseguente annotazione. L’intenzione è quel fattore o quella qualità mentale che precede immediatamente un’azione o un movimento fisico.

Il corpo, di per sé, non si muoverebbe: se si muove, è in conseguenza di un particolare impulso o di una volizione. In tal modo, prima di avviare qualunque movimento fisico, si annoti l’intenzione di muoversi, l’intenzione di star fermi, l’intenzione di cambiare posizione, l’intenzione di voltarsi, l’intenzione di stendersi, e via dicendo.

Prima di ognuno di questi movimenti, nella propria mente si manifesterà una particolare volizione. L’intenzione, la volizione, è estremamente sottile. Non si tratta, infatti, di un oggetto tangibile e distinto come un pensiero o un’immagine, dei quali si può nitidamente discernere l’inizio, la fase mediana, e la fine. Le prime volte, un’intenzione verrà percepita semplicemente come una pausa prima dell’inizio del movimento, come un attimo di pausa nel quale si avverte che si sta per fare qualcosa. Se si riesce a riconoscere quella pausa e ad annotare: ‘intenzione’, già ci si sarà avvicinati allo scopo.

Cominciare a essere consapevoli di queste intenzioni è importante per due ragioni. La prima è che in questo modo si può illuminare e svelare il rapporto di causa ed effetto che lega fra loro mente e corpo: e questa è una delle leggi fondamentali, capaci di condurre a un più profondo livello di comprensione. Lo sviluppo del processo di mente e corpo avviene secondo leggi rigorose, e una delle leggi che lo regolano è proprio quella di causa ed effetto. Quando annotiamo: ‘intenzione’, si acquisisce una comprensione preliminare del modo in cui quella legge opera: se il corpo si muove, è per un’intenzione. L’intenzione è la causa, il movimento l’effetto. A mano a mano che notiamo questa relazione nell’ambito della nostra esperienza, essa si fa sempre più chiara.

La seconda ragione dell’importanza della consapevolezza delle proprie intenzioni è che il fatto di annotare: ‘intenzione’, ci aiuta a scoprire e a comprendere la mancanza di un sé nel processo di mente e corpo. Anche quando ci dedichiamo all’osservazione del respiro, delle sensazioni, dei pensieri, delle immagini e delle emozioni, infatti, e cominciamo a scorgere che tutti questi oggetti non sono altro che elementi di uno spettacolo fuggevole, possiamo, ciò nonostante, continuare a identificarci con il senso di un autore, di un direttore di tutte queste cose, di colui che comanda le varie azioni.

Ma se si notano le varie intenzioni e ci si avvede del fatto che anch’esse sono fenomeni mentali transitori e che, così come nascono, svaniscono; se ci si avvede del fatto che le intenzioni stesse non sono né ‘io’ né ‘mio’, e che, pertanto, non appartengono a nessuno, ecco che si comincia ad allentare il proprio senso di identificazione con esse e si sperimenta a livelli sempre più profondi la mancanza di un sé nell’intero sviluppo di questo processo.

Meditazione Vipassana in sintesi

Si comincia, dunque, con il respiro, schiudendosi alla sensazione o alla percezione di ciascun respiro, di ciascun movimento di sollevamento e abbassamento, o di ingresso e uscita, senza attendersi nulla di particolare circa il modo in cui un singolo respiro può presentarsi, senza cercare di costringere il respiro stesso in un modello definito, e senza pensare che si dovrà manifestare un qualche genere di sensazione. Si tratta, insomma, di assestarsi nel momento presente, con cura e precisione estreme, e di aprirsi a ciò che all’interno di quel particolare respiro si rivela. Qual è, dunque, la sensazione di questo sollevamento, di questa inspirazione? Che cosa se ne prova? È lunga o breve, è liscia o scabrosa, è profonda o superficiale, e c’è’ pesantezza, o oppressione, o formicolio?

Non bisogna, peraltro, spulciare un’intera lista di controllo: le caratteristiche di ogni respiro saranno di per sé evidenti di fronte a una nostra condizione di apertura e di attenzione premurosa. E sufficiente, dunque, assestarsi e dischiudersi, volgendosi con mente di principiante a ogni sollevamento e a ogni abbassamento, a ogni inspirazione e a ogni espirazione.

Se tra l’uno e l’altro respiro si evidenziasse uno spazio o una pausa, si annoti uno o più punti di contatto sotto l’etichetta: ‘toccare, toccare’. Se diviene predominante una particolare sensazione fisica, capace di distrarre la mente dal respiro, si lasci la mente accompagnarsi a quella sensazione predominante: ci si apra a essa, la si percepisca. Si noti di che genere di sensazione si tratta, se è di caldo o di freddo, di pesantezza o di leggerezza, se è un fremito o un formicolio, una sensazione di dolore o di piacere.

Quando ci si dischiude consapevolmente a ogni sensazione, le caratteristiche della sensazione stessa divengono di per sé evidenti: si conservi, dunque, la propria mente in uno stato di estrema ricettività verso tutte le sensazioni, e si noti che cosa succede quando le si osserva. Diventano più forti o più deboli? Scompaiono o si accrescono? Si osservi ciò che succede, senza un modello prestabilito e senza attendersi qualcosa: si permanga, semplicemente, con quello che c’è. Poi, quando quella determinata sensazione non è più predominante, si torni nuovamente al respiro.

Si conservi, inoltre, la mente particolarmente vigile verso i diversi fenomeni mentali, annotando: ‘pensare’, o ‘vedere’ non appena ci si rende conto che un pensiero o un’immagine si sta manifestando. Si osservi, quindi, che cosa succede a quel pensiero o a quell’immagine quando li si annota. Continuano o scompaiono? E se scompaiono, scompaiono rapidamente o con lentezza? Quando il pensiero o l’immagine non sarà più predominante, si tornerà alla consapevolezza del respiro. Si mantenga sempre fluido, ritmico e rilassato questo movimento da oggetto a oggetto. Non bisogna nemmeno andare in cerca di qualche oggetto specifico; si conservi, piuttosto, una condizione di apertura e vigilanza, in modo che qualunque cosa si manifesti, divenga l’oggetto della propria consapevolezza, e si lasci, allo stesso modo, nascere e svanire da sé ogni oggetto fisico e mentale. La pratica consiste semplicemente nell’assestarsi e nel notare, momento per momento, che cosa si manifesta, senza giudizi, senza valutazioni, e senza interpretazioni. È pura e semplice attenzione a ciò che accade.

Si mantenga la medesima presenza mentale anche nei riguardi dei vari stati mentali o delle varie emozioni. Questi stati mentali, peraltro, vengono definiti come oggetti solo con minore chiarezza; non posseggono, infatti, un chiaro inizio, una parte mediana, e una fine, anche se possono trasformarsi in oggetti della propria esperienza assolutamente predominanti. Se, dunque, uno di questi stati mentali, o un’emozione, o un umore, come ad esempio i sentimenti di tristezza o di felicità, di ira o di desiderio, di irrequietezza o di eccitazione, di interesse o di rapimento, di gioia o di quiete, diviene particolarmente forte, si annoti mentalmente quel medesimo stato d’animo, lo si percepisca, e si individui in che modo fa anch’esso parte del solito fuggevole spettacolo: nasce, sta lì per un po’ di tempo, quindi svanisce.

Si usi il respiro come strumento principale, si resti con esso se non si manifesta null’altro in modo predominante, e si torni quindi a esso quando gli altri oggetti comunque scompaiono. Inoltre, se la mente si sente dispersa o confusa, e non sa esattamente che cosa osservare, si concentri la propria attenzione sul respiro: o sui movimenti di sollevamento e di abbassamento, o su quelli di ingresso e di uscita. Quando, poi, la mente si sente più stabile e concentrata, ci si schiuda nuovamente alla consapevolezza dell’intera e mutevole sfera di oggetti: il respiro, i suoni, le sensazioni, i pensieri, le immagini, le intenzioni, le emozioni, annotandoli uno dopo l’altro a mano a mano che si manifestano. Si mantenga la mente sempre aperta, ricettiva e vigile, in modo che,  momento per momento, si possa essere accuratamente consapevoli di ciò che è presente.

Da: Jack Kornfield, Joseph Goldstein, “Il cuore della saggezza. Esercizi di meditazione“, Astrolabio Ubaldini, 1988.

Il testimone sul ponte

Il fiume dei pensieri e delle sensazioni
scorre senza sosta nella mente e nel corpo.

Dal ponte del respiro consapevole
io osservo lo scorrere del fiume
senza ostacolarne o modificarne il corso.

Ascolta l’audio della meditazione guidata:

La poesia può costituire un efficace punto di riferimento nella pratica di meditazione. Per le sue caratteristiche di espressione linguistica dal significato non univoco, si presta all’esplorazione. Non un esplorazione concettuale, basata sul ragionamento, ma un entrare in contatto intimo col significato profondo delle parole, un significato che può essere anche senza parole. Il consiglio di Zen in the City è di leggere la poesia 2 volte, in caso anche di più, poi chiudere gli occhi e lasciare per 10 minuti che i versi risuonino all’interno della nostra coscienza.

Il mio passato

(Alda Merini)

Spesso ripeto sottovoce
che si deve vivere di ricordi solo
quando mi sono rimasti pochi giorni.
Quello che è passato
è come se non ci fosse mai stato.

Il passato è un laccio che
stringe la gola alla mia mente
e toglie energie per affrontare
il mio presente.
Il passato è solo fumo
di chi non ha vissuto.
Quello che ho già visto
non conta più niente.
Il passato ed il futuro
non sono realtà ma solo
effimere illusioni.
Devo liberarmi del tempo
e vivere il presente giacché
non esiste altro tempo
che questo meraviglioso istante.

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