Settimana 2

come affrontare la solitudine

Pratichiamo con Zen in the City - Settimana 2

come affrontare la solitudine

Il tema di questa settimana è quello della solitudine. La solitudine viene solitamente associata a stati d’animo negativi. In quanto animali fortemente sociali, soffriamo l’isolamento. Ma la solitudine è anche il presupposto irrinunciabile per fare silenzio dentro e fuori di sé e intraprendere quel percorso di esplorazione della mente e del corpo che è il cammino per la liberazione.

Esplora le diverse proposte che trovi nel menù e adottale per la tua pratica ne corso di questa settimana. Decidi tu liberamente quanto praticare, ma ricorda che la cosa più importante è praticare tutti i giorni, anche per pochi minuti! ?

Descrivere a se stessi

Una pratica molto semplice e interessante è quella di dire a voce alta tutto ciò che sta succedendo, nel preciso momento in cui lo si fa. Cioè parlare da soli, come fanno i matti, secondo il senso comune che abbiamo ereditato dai nostri avi. Basta nominare quello che c’è: da ciò che percepiamo coi cinque sensi, fino alle azioni, anche minime, che stiamo compiendo. Come se stessimo descrivendo quello che succede a beneficio di un ipotetico interlocutore al telefono, anche se il telefono non c’è affatto. Gli amanti dello sport potrebbero farlo, per gioco, alla maniera del telecronista.

È un esercizio che è alla nostra portata ogni volta che ci troviamo da soli. Non c’è bisogno di parlare a voce proprio alta: l’importate è nominare tutto quello che capita a tiro dei nostri sensi. È molto utile includere anche le reazioni che provocano in noi le cose che vediamo o sentiamo. Ad esempio, vedo una signora che attraversa la strada, mi ricorda mia madre; sto seduto alla scrivania e il vento porta degli odori che non mi piacciono; mentre apro il frigorifero, mi sento preso dall’impulso di mangiare la prima cosa che mi capiterà a tiro; e così via.

C’è un famoso Sutra intitolato “Discorso sul modo migliore per vivere soli” (Bhaddekaratta Sutta). Il titolo può dare luogo ad equivoci, se interpretato in modo letterale. Ma il maestro zen Thich Nhat Hanh sostiene che “soli” andrebbe in realtà interpretato come “unificati nel qui e ora”, perché quando ci perdiamo nel passato o nel futuro è come se in noi ci fossero due persone, una che resta col corpo nel presente e una seconda che si sposta con la mente nel passato o nel futuro. Pertanto ci si può sentire soli anche in mezzo agli altri e ci si può sentire non soli anche se si vive in un appartamento come single per tutta la vita.

Quando siamo realmente unificati nel qui e ora, è più difficile provare un sentimento di solitudine, perché entriamo in contatto con la dimensione più profonda della realtà, nella quale possiamo vedere come, in ogni istante della nostra vita, siamo costantemente connessi con gli altri, in molti modi diversi. Il senso si solitudine si alimenta proprio con un’idea del sé separato.

Nel corso della vita quotidiana, siamo per lo più persi in pensieri rivolti al passato, al futuro o a un altro luogo. Ma non mancano le occasioni per tornare a essere “unificati nel qui e ora”. Per esserlo, non c’è necessariamente bisogno di meditare. Possiamo ad esempio brevemente tornare all’attenzione verso la posizione e le sensazioni del corpo, qualsiasi cosa stiamo facendo, o verso il respiro, che è costantemente a nostra disposizione. Ogni volta che siamo occupati in un’attività pratica – come fare le pulizie, mettere ordine, riparare, cucinare, camminare, lavarci, andare al gabinetto, salire le scale, aprire e chiudere la macchina e metterla in moto, fare attività fisica, ecc. – possiamo tornare al qui e ora semplicemente concentrandoci unicamente su ciò che stiamo facendo in questo momento.

Ci sono dei momenti particolari della giornata che potremmo adottare quali “rituali” per ri-focalizzarci col qui e ora, puntando poi sulla forza dell’abitudine. Ad esempio, mentre prepariamo il caffè o il tè, quando facciamo la doccia, mentre ci vestiamo o spogliamo, quando rifacciamo il letto al mattino, quando spegniamo il computer al termine della giornata di lavoro.

Un’accortezza importante da seguire è quella di spegnere i sottofondi sonori che solitamente ci accompagnano, come la radio in macchina, la TV in casa, le cuffiette del telefono mentre siamo in giro. Qualche volta ci sarà pure bisogno, ma solo se nella nostra vita è il silenzio a dominare (quando è possibile), riusciamo ad entrare in contatto con la dimensione più autentica di noi stessi.

Un altro esercizio utile si può fare proprio quando siamo in mezzo alla folla: in un mezzo pubblico, a fare la fila, in attesa al banco del supermercato. Tornando con l’attenzione al corpo e alla sua posizione, possiamo sentirci “unificati” e non separati, né rispetto a noi stessi, né rispetto agli altri.

Se ci abituiamo al silenzio e a frequenti “ritorni a casa”, prenderemo sempre più confidenza con questa dimensione, che ci piacerà sempre di più. È quello che intendeva il Buddha quando, poco prima di morire, disse “Siate un’isola per voi stessi”. Questo modo di tornare a noi stessi non ci fa re-incontrare quell’io, separato dagli altri, che ha costantemente bisogno di essere confermato, ma un sé dinamico, interconnesso con tutto e con tutti. Perfino sfuggente, perché non si lascia identificare né col corpo, né con le sensazioni, né con alcuno degli altri elementi che di momento in momento creano la nostra persona.

La gatha è un verso recitato mentalmente, in sincronia con il respiro, come supporto alla pratica di consapevolezza, sia nella vita quotidiana, sia nella pratica meditativa vera e propria. L’uso della gatha è stato reso popolare in tempi moderni dal maestro zen Thich Nhat Hanh. Ogni settimana proponiamo una gatha, da recitare in una specifica situazione in questo periodo di 7 giorni.

Ecco la gatha di questa settimana:

Accendendo il computer
Accendendo il computer,
entro in contatto
con la coscienza deposito*.
Faccio voto di trasformare
ogni abitudine
ed aiutare a crescere
amore e comprensione.

* La “coscienza deposito”, secondo alcune scuole buddhiste, è quella parte della mente che conserva i “semi” delle nostre esperienze. Tali semi sono sempre presenti e pronti a generare piante e frutti quando vengono “innaffiati”, cioè quando la pente riceve degli input che li stimola. I semi possono essere positivi, neutri e negativi. Con la presenza mentale si impara a innaffiare selettivamente solo i semi positivi.

Ascolta questo brevissimo discorso di Fabrizio De André sulla solitudine. Il cantautore genovese risulta non aver mai avuto a che fare col Buddhismo, eppure le sue parole sembrano in totale sintonia con gli insegnamenti del Dharma. Questo dovrebbe insegnarci a non attribuire etichette di appartenenza e a dare credito solo a chi la pensa come noi. Nelle nostre certezze, ci isoliamo dagli altri perché erigiamo degli ostacoli all’ascolto e al dialogo. Nel dubbio, invece, abbiamo maggiori possibilità di coltivare l’apertura della mente e del cuore e sentirci più vicini agli altri. Meno soli.

Durante la tua vita ordinaria, cerca di individuare i momenti in cui ti apri agli altri, ai loro punti di vista e abitudini diversi dai tuoi, e quelli invece nei quali preferisci stare dalla parte che ritieni giusta. Se ci riesci, osserva come ti senti nell’uno e nell’altro caso.

Sherry Turkle – Come apprezzare la solitudine

Solitudine e felicità possono andare d’accordo, per la studiosa Sherry Turkle, purché si coltivi la capacità di apprezzare la solitudine con l’attenzione e con una conversazione rispettosa.

In che modo si può coltivare la capacità di apprezzare la solitudine? Con l’attenzione e una conversazione rispettosa.

I bambini sviluppano la capacità di vivere la solitudine in presenza di un adulto che si dimostri attento. Pensiamo ai momenti di silenzio che si creano quando portiamo un bambino a fare una tranquilla passeggiata nella natura. Il bambino inizia a sentirsi sempre più consapevole di che cosa significhi essere da soli nella natura, sapendo tuttavia di essere «con» qualcuno che lo sostiene e lo introduce a quell’esperienza. Gradualmente, quel bambino comincerà a fare le sue passeggiate in solitudine. Oppure, immaginiamo una mamma che fa il bagnetto alla figlia di due anni, lasciando che la bimbetta fantastichi con i suoi giocattoli da bagno mentre si racconta delle storie e impara a stare da sola con i suoi pensieri, sapendo però per tutto il tempo che la mamma è presente e a sua disposizione. Gradualmente, il bagnetto diventerà di per sé un momento in cui la bimba si sentirà a proprio agio con la sua immaginazione. L’affetto rende possibile vivere la solitudine.

Iniziamo così ad abituarci a essere «soli con», e, se tutto andrà per il meglio, finiremo per avere un Io popolato da coloro che più hanno contato nella nostra vita. Hannah Arendt descrive la persona solitaria come un individuo libero di farsi compagnia da solo. Anzi, non è solo, visto che è sempre accompagnato, è «insieme con sé stesso». Per la Arendt, «la riflessione, in senso stretto, si svolge in solitudine ed è un dialogo fra me e me; ma questo dialogo del “due-in-uno” non perde il contatto col mondo dei suoi simili, perché essi sono rappresentati nell’io con cui conduco il dialogo del pensiero».

Continua a leggere…

Meditazione sulla Solitudine

  1. Nella prima parte di questa meditazione guidata, ci concentriamo sull’atteggiamento – sia fisico che mentale – che assumiamo nel momento in cui decidiamo di sederci in meditazione. L’intenzione con la quale pratichiamo è molto molto importante. Una delle più grandi novità che ha introdotto il Buddha è stata proprio quella di dare grande valore all’intenzione. Se consideriamo il concetto di karma, ad esempio, esso era già presente nella spiritualità indiana, inteso come effetto delle proprie azioni. Il Buddha ha inteso il karma già a livello di intenzione, evidenziando come prima ancora di compiere una certa azione, con la nostra intenzione abbiamo già piantato il seme che porterà certi frutti piuttosto che altri.
  2. Poi la meditazione passa a stabilire un contatto diretto col corpo, tramite l’attenzione al respiro. Questa è la tecnica di meditazione più diffusa, perché il respiro crea una relazione diretta tra mente e corpo e consente l’ancoraggio al momento presente. Il respiro è tenuto in grande considerazione specie nella meditazione zen, perché il suo carattere spontaneo e al tempo stesso volontario facilita l’emergere di una speciale capacità intuitiva nei confronti della realtà.
  3. Il livello successivo è quello di vedere in se stessi i numerosi legami che ci mantengono in contatto con molte altre persone, anche se siamo soli. Questi legami ci collegano a relazioni sia del passato, sia del presente. Possiamo ad esempio vedere facilmente la presenza dei genitori in noi, ma anche constatare quando le persone che noi crediamo di essere, siano frutto di una fitta rete di relazioni con tante altre persone, conosciute e non.
  4. Andando ancora avanti, si osserva un altro tipo di vincolo, la relazione con se stessi. In qualche modo, è necessario rimanere soli anche rispetto a se stessi. Non si tratta di fare una magia, ma di lasciare andare quella “identità fissa” di cui abbiamo parlato, che è il modo in cui siamo abituati a considerarci. Pensiamo di essere sempre la stessa persona, che è fatta in questo modo e in quest’altro. Ma col passare del tempo ci costruiamo una gabbia che ci impedisce di conoscerci veramente. Questa gabbia ci imprigiona col chiacchiericcio che durante la giornata ci accompagna sempre. Questo è il momento di lasciarlo fuori dalla porta.
  5. Spogliandoci dall’idea che abbiamo di noi stessi, possiamo assumere quella mente libera, da “principiante” che osserva tutto con la curiosità di chi scopre costantemente qualcosa di nuovo.
  6. Cosa rimane alla fine? Solo ciò che possiamo osservare direttamente: il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Sono i cosiddetti 5 aggregati. Ma in questa meditazione, per semplicità, ci limitiamo al corpo, alle sensazioni e ai pensieri, cioè le cose che possiamo osservare con maggiore evidenza.
  7. L’ultimo stadio è quello di non identificarci con nessuna di queste cose, perché non siamo né il nostro corpo, né le nostre sensazioni, né i nostri pensieri. Se riusciamo a vederla, rimane solo la dimensione assoluta della realtà, una realtà in continua trasformazione.

Ascolta l’audio della meditazione guidata:

La poesia può costituire un efficace punto di riferimento nella pratica di meditazione. Per le sue caratteristiche di espressione linguistica dal significato non univoco, si presta all’esplorazione. Non un esplorazione concettuale, basata sul ragionamento, ma un entrare in contatto intimo col significato profondo delle parole, un significato che può essere anche senza parole. Il consiglio di Zen in the City è di leggere la poesia 2 volte, in caso anche di più, poi chiudere gli occhi e lasciare per 10 minuti che i versi risuonino all’interno della nostra coscienza.

Quello che sai di me non sono io

Di Silvano Agosti

 

Quello che sai di me non sono io
quello che sai del mondo non è il mondo
Incontra me e il mondo
oltre i confini del sapere
Allora nel mio sguardo tra infiniti volti vedrai il tuo, intatto.

Settimana 1

Settimana 2

Settimana 3

Settimana 4

Settimana 5

Settimana 6

Settimana 7

Settimana 8

Settimana 9

Settimana 10

Settimana 11

Settimana 12

You need to login or register to bookmark/favorite this content.