
Il “senza forma” è un concetto dal significato non immediato. Robert Wright ci spiega come l’ha capito nel corso di un ritiro di meditazione buddhista, comprendendone anche il valore per la propria vita.
Durante un ritiro presso l’Insight Meditation Society, in cui sentii parlare per la prima volta del “senza forma”, ogni partecipante ebbe un incontro di dieci minuti con uno degli insegnanti, da solo, durante il quale ciascuno ebbe modo di parlare di ciò che gli creava difficoltà e ottenere l’aiuto del maestro. Io ebbi un confronto con un’insegnante chiamata Narayan Liebenson. Mi lesse il seguente brano, tratto dal Samadhiraja Sutra, un testo buddhista risalente a diciannove secoli fa:
Sappi che così è ogni cosa:
un miraggio, un castello di nubi,
un sogno, un’apparizione,
priva di essenza, ma con qualità visibili.
Un altro insegnante del ritiro, Rodney Smith, mi aveva parlato del senza forma. Ebbi così l’occasione di farmi spiegare da Narayan cos’avesse voluto intendere Rodney.
Narayan, tra l’altro, ha una visione piuttosto radicale. Come quasi tutti i maestri dell’Insight Meditation Society, ha svolto una pratica contemplativa intensiva, trascorrendo, tra l’altro, mesi di solitudine nelle foreste dell’Asia sudorientale. Non insegna la meditazione solo per ridurre lo stress, anche se naturalmente è ben contenta che fornisca anche questo tipo di vantaggio. A lei, però, interessa principalmente aiutare i suoi allievi a raggiungere la liberazione.
Per questo motivo non approvava del tutto il fatto che scrivessi questo libro. Scrivere un libro sulla pratica meditativa del buddhismo poteva impedire la pratica stessa. Se state cercando di raggiungere certi stati meditativi per poterli descrivere in un libro, è meno facile raggiungerli, e meno facile raggiungere certi traguardi che derivano dall’essersi avvicinati alla pratica in uno spirito diverso. Una volta mi disse, con uno sguardo solenne: «Penso che dovresti scegliere tra lo scrivere il libro e la liberazione».
Le feci notare, allora, che il libro poteva aiutare altre persone a seguire il dharma; e se aiutava un numero sufficiente di loro, questo non avrebbe compensato la mia incapacità a raggiungere la liberazione? Non la convinsi. Uso compito era insegnare la liberazione, e in quel momento era la mia insegnante. E poi, sembrava convinta che niente è meglio di un essere realmente liberato, neppure un autore non liberato che rende possibile la liberazione altrui.
Durante quella particolare conversazione, chiesi a Narayan se il punto di vista di Rodney fosse condiviso da molti insegnanti Vipassana. Prendeva sul serio, lei, l’idea del senza forma? Sì, ci credeva, mi rispose. E no, le cose che aveva detto Rodney sul senza forma non erano considerate radicali nella sua cerchia di amici. «Anche Joseph avrebbe parlato così» disse, riferendosi a Joseph Goldstein.
Continuai a insistere, chiedendole cosa intendesse esattamente con quel termine. Confermò ciò che sospettavo: non voleva dire che il mondo fisico non esistesse o che fosse privo di struttura. I tavoli esistono, le seghe circolari esistono. Dopo alcuni minuti di conversazione ebbi l’impressione di avere capito cosa intendesse.
Le domandai: «Significa che tutto ciò che è significativo a proposito del mondo è qualcosa che gli attribuiamo noi?» «Esatto» rispose.
Mi affretto ad aggiungere che non significa che viviamo in un universo privo di significato. Profondamente radicato nel pensiero buddhista è il valore morale intrinseco della vita senziente, non solo il valore degli esseri umani, ma il valore di tutti gli organismi che hanno un’esperienza soggettiva e che quindi sono capaci di provare dolore e piacere, di soffrire e di non soffrire. Questo valore a sua volta impartisce un valore ad altre cose, come aiutare gli altri, essere gentili con i cani e così via. Il significato morale è, in questo senso, intrinseco alla vita.
Ma ciò che Narayan voleva dire era che, mentre svolgiamo le nostre attività quotidiane, conferiamo una specie di significato narrativo agli oggetti. E queste narrative finiscono per essere molto ingombranti.
Decidiamo che qualcosa che abbiamo fatto è stato un grave errore, e che se ci fossimo comportati diversamente, sarebbe andato tutto benissimo. Oppure decidiamo che dobbiamo entrare in possesso di qualcosa o raggiungere un risultato particolare, altrimenti la nostra vita sarà un disastro. Sotto queste storie serpeggiano giudizi narrativi elementari sulla positività o negatività di quegli elementi in sé.
Se, per esempio, comincio a dirmi che venire a questo ritiro di meditazione è stato un terribile sbaglio, che commetto sempre errori del genere, vi sono numerose premesse discutibili alla base di questa storia. Vi è la premessa secondo la quale se non fossi venuto al ritiro, qualunque altra cosa avessi fatto sarebbe andata liscia, mentre invece avrei benissimo potuto finire sotto un autobus. Vi è la premessa che, avendo avuto alcune esperienze dolorose, il bilancio di questa settimana di ritiro sarà complessivamente negativo, mentre i suoi effetti di lungo termine non si possono conoscere. E alla base di questa storia si trova il tipo più elementare di premessa: semplici giudizi percettivi come «questa sega circolare che sento mentre cerco di meditare è fastidiosa». E questo genere di significato, che sembra radicato nella grana degli oggetti, non è un aspetto connaturato nella realtà; è qualcosa che le imponiamo noi, una storia che raccontiamo noi a proposito della realtà.
Costruiamo storie su storie su storie, e il problema delle storie risiede nella loro stessa creazione. La meditazione di consapevolezza è, tra le altre cose, uno strumento per esaminare attentamente le nostre storie, a partire dalle fondamenta, in modo da poter distinguere, se si vuole, la verità dalle invenzioni.
Da: Robert Wright, “Perché il buddhismo fa bene. La scienza e la filosofia alla base di meditazione e illuminazione“, Vallardi editore, 2018.
Per approfondire:
Perché il buddhismo fa bene. La scienza e la filosofia alla base di meditazione e illuminazione

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